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Test rapidi: bene per screening, meno per diagnosi

L'INTERVISTA

Test rapidi: bene per screening, meno per diagnosi

«Il Gold standard rimane il tampone molecolare. Ritengo sia importante utilizzare i test rapidi nelle situazioni in cui c’è un caso indice e si vuole fare una prima valutazione dell’eventuale presenza di focolai. Test salivari fai da te: interessanti prospettive, ma ancora da mettere a punto». A colloquio con Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università di Milano e direttore Sanitario Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano

12 novembre 2020

di Carlo M. Buonamico

Clicca play per guardare la video intervista (durata: 14 minuti c.ca)

Professor Pregliasco, molti avevano giurato che non ci sarebbe stata la “seconda ondata”. Eppure eccoci qui con i contagi che aumentano giorno dopo giorno e una corsa contro il tempo per fare lo screening dei cittadini e con un contact tracing che, a ruota, fa cilecca. In tutto questo, i test per verificare la positività delle persone al Covid 19 sono al centro della scena. Facciamo un po’ di chiarezza e ripassiamo la nomenclatura: quali campioni biologici si usano, quali molecole si cercano e soprattutto che informazione restituiscono i test effettuabili: molecolare, sierologico e antigenico?

In questi otto mesi dall’insorgenza della malattia da Covid 19 si è riusciti a individuare finora diverse metodologie di analisi per verificare la malattia. Due le opzioni: individuare la presenza del virus nelle prime vie respiratorie o la risposta anticorpale del sistema immunitario dell’organismo. Per quanto riguarda i test sierologici, essi possono individuare le IgM (di pronta risposta e che si positivizzano dopo una settimana dall’infezione) e le IgG (che si positivizzano dopo 14 giorni). Alcuni di questi test misurano le immunoglobuline totali e quindi si può considerare la loro capacità di individuare un soggetto infetto dalla quattordicesima giornata. Per questo tipo di test occorre un prelievo di sangue, venoso o capillare, che può essere analizzato in laboratorio o con test rapidi che individuano la positività con un sistema immunocromatografico. I test di laboratorio hanno un’affidabilità maggiore con sensibilità e specificità maggiori rispetto ai test rapidi.
La presenza del virus viene analizzata prelevando un campione di muco attraverso un tampone, nasale o naso-faringeo. I risultati che si ottengono attraverso questa metodica sono collegati anche alla corretta esecuzione del prelievo stesso. Sul campione biologico si può eseguire un’analisi molecolare che, attraverso reazione polimerasica a catena, riesce a individuare l’Rna virale con alta sensibilità, oppure test antigenici che usano sistemi immunocromatografici. Oggi si stanno sviluppando anche tamponi salivari, meno invasivi rispetto al tampone molecolare. Anche in questo caso ci sono test di laboratorio più affidabili con valori di sensibilità e specificità elevati, e test rapidi con sensibilità di circa l’80 per cento e specificità del 95 per cento, che possono determinare dei falsi negativi.

Ricordiamo allora anche due concetti fondamentali: la specificità e la sensibilità dei test.

La sensibilità è la capacità del test di individuare i malati, la specificità è la capacità di individuare i sani. Il problema è che questi due parametri non possono essere massimizzati entrambi: l’aumento dell’uno va a scapito dell’altro. In genere i test sono tarati per massimizzare la sensibilità, cioè per individuare al meglio i malati. Chiaramente, un test di elevata sensibilità porta con sé la possibilità di avere falsi positivi (cioè soggetti ritenuti malati, che in realtà sono sani), mentre test con minore sensibilità come sono i test rapidi può portare con sé la possibilità di avere falsi negativi (cioè soggetti che in realtà sono infetti, ma che non vengono identificati dal test).

Quindi quando si deve preferire l’esecuzione di un test molecolare, sierologico o antigenico?

Il test sierologico ha la sua validità rispetto alla storia passata dell’individuo e quindi fornisce indicazioni sull’eventuale pregressa infezione (presenza di IgG) o dell’infezione in corso (IgM). Tant’è che se si esegue questo test è necessario un tampone molecolare per verificare che si tratti di una malattia ancora in corso o meno. Tra l’altro, oggi stiamo vedendo che a distanza di 3-4 mesi molti soggetti perdono questa positività. Non è ancora chiaro se ciò voglia dire avere perso l’immunità o se si tratti solo di una diminuzione del titolo anticorpale ma non della perdita della capacità di innescare una risposta immunitaria in caso di nuovo contatto con il virus. Questo ce lo dirà il tempo. A oggi abbiamo notizia certa di 22 casi al mondo, di cui uno con esito letale, che hanno mostrano una reinfezione.
Il tampone, invece, è una istantanea della presenza del virus e dà informazioni sull’infettività del soggetto ma la sua rappresentazione è limitata nel tempo; un test negativo eseguito in un dato momento, subito dopo può essere positivo. Il tampone si positivizza, cioè si può rilevare la presenza del virus attraverso questo tipo di test, tra le 24 e le 72 ore dal momento in cui il virus ha infettato il soggetto.

Da qualche settimana si parla sempre più dei test (tamponi) antigenici rapidi: il suo collega del Veneto Prof. Crisanti ha espresso forti perplessità: sostiene siano poco specifici (non identificherebbero 3 positivi su 10) e poco sensibili (ci sarebbe il 30% di falsi negativi). Con il rischio di lasciare circolare persone positive… Un altro studio del Centro di biotecnologie avanzata (Ceinge) di Napoli rincara la dose e indica che la specificità arriverebbe appena al 50%, con il rischio di non individuare un positivo su due. Lei che ne pensa?

Il gold standard è il tampone molecolare. Ritengo sia importante utilizzare i test rapidi in ottica di screening nelle situazioni in cui c’è un caso indice e si vuole fare una prima valutazione dell’eventuale presenza di focolai. I dati complessivi di performance devono essere ancora meglio valutati. La riflessione di Crisanti ha una sua veridicità perché a livello statistico il valore predittivo del test positivo o negativo dipende dalla diffusione nella popolazione di riferimento della malattia. In altri termini, se c’è bassa prevalenza (diffusione) della malattia una performance non eccezionale come quella dei test rapidi effettivamente può non fornire un valore di predittività sufficiente nel momento in cui si vuole fare diagnosi. Al di là di questi margini di errore, ritengo però interessante questa applicazione sistematica. Si deve però evidenziare che al momento c’è una eccessiva richiesta di tamponi e può essere anche errato farlo, per esempio per i contatti stretti di soggetti positivi perché i 10 giorni di tempo di incubazione massima del virus – che rappresentano la quarantena – devono essere passati. In alcune situazioni il contatto stretto cerca di avere una risposta nell’immediato circa la sua eventuale positività, con il rischio di avere un risultato negativo e conseguentemente di abbassare la guardia e non attuare l’isolamento del soggetto positivo e la quarantena. In alcune situazioni, come quella che riguarda gli operatori sanitari che possono avere un’esenzione parziale dalla quarantena se svolgono azione di interesse pubblico, essi possono continuare a lavorare ma devono rispettare la quarantena negli altri ambiti della loro quotidianità e vengono monitorati con test rapidi a zero e cinque giorni dalla sospetta infezione e poi a 10 giorni con un test molecolare l’effettiva non caduta in malattia.

Un’ultima domanda su un altro tipo di test rapidi: a che punto siamo con quelli salivari antigenici fai-da-te?

Mi sto occupando personalmente della valutazione comparativa rispetto al gold standard. Sono interessanti dal punto di vista della loro non invasività rispetto al tampone, perché si tratta di spugnettine che si tengono in bocca pochi secondi. A livello preliminare ci sono buone prospettive. Si tratta di mettere a punto queste metodiche e ottenere una validazione da parte delle autorità competenti.

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