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Non creiamo luoghi ma servizi ai cittadini

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Non creiamo luoghi ma servizi ai cittadini

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Non è con le case di comunità che si affronta il futuro del Servizio sanitario. All’evento organizzato da Assosalute si è discusso della propensione degli italiani all’automedicazione e dell’importanza del supporto professionale e umano di medici e farmacisti interconnessi

22 luglio 2021

di Laura Benfenati

Si è parlato di case di comunità all’evento organizzato da Assosalute “La Sanità che vorrei”, e molti degli ospiti ne hanno sottolineato l’inutilità nella gestione dei malati cronici, in contrapposizione all’importanza delle figure del medico di medicina generale e del farmacista, vere e proprie “sentinelle del territorio”, come le ha definite Salvatore Butti, presidente dell’associazione dei produttori di farmaci di automedicazione. Del resto, i dati presentati dal Censis dimostrano che nell’ultimo anno gli italiani hanno avuto bisogno della sanità di prossimità: 46 milioni di persone hanno sofferto di piccoli disturbi e il 44,1 per cento di loro è ricorso all’automedicazione (il 41,3 per cento al medico di medicina generale, il 16,3 per cento al farmacista). «Si tratta di un comportamento di massa e consapevole», ha spiegato Francesco Maietta, responsabile Area Politiche sociali del Censis. «Nell’anno della pandemia il 65,4 per cento degli italiani si è autogestito, soprattutto se si trattava di giovani (77,8 per cento), laureati (72,8 per cento), occupati (71,6 per cento). Fatta 100 la quota degli italiani che si sono autogestiti, il 77,4 per cento per almeno un disturbo si è rivolto anche al medico o al farmacista, il 22,4 per cento ha agito in autonomia. L’automedicazione responsabile ha un ruolo fondamentale nell’ammortizzare l’impatto sul Ssn, lo aiuta».
E come sarà il Servizio sanitario del prossimo futuro? L’89,6 per cento dei cittadini vorrebbe strutture di prossimità per le cure primarie, l’83,5 il potenziamento delle farmacie come centri servizi e il 73,1 promuovere un intenso ricorso a digitale e telemedicina: «I cittadini vogliono una sanità di prossimità, un interlocutore preciso a cui rivolgersi in caso di bisogno. Per il 67,2 per cento degli italiani il farmacista dovrà essere il referente per i piccoli disturbi, in stretta connessione con il medico di medicina generale, primo referente per la salute in generale (88,4 per cento)», ha concluso Maietta.

Una sanità più connessa

Il cittadino oggi interagisce con diversi attori nel suo percorso di salute: non soltanto con medico e farmacista ma anche, per esempio, con il mondo assicurativo. È il cosiddetto modello connected care di cui ha parlato Chiara Sgarbossa, direttore dell’Osservatorio innovazione digitale in Sanità del Politecnico di Milano: «Oggi c’è un’interazione frammentata in questo ecosistema, servono piattaforme integrabili. Il Fascicolo sanitario elettronico potrebbe svolgere questa funzione di connessione ma non lo fa: è stato implementato in tutte le Regioni ma è ancora poco utilizzato, poco popolato di documenti sanitari. Soltanto il 38 per cento dei cittadini ne ha sentito parlare e solo il 12 per cento è consapevole di averlo utilizzato almeno una volta». Sgarbossa ha raccontato che le informazioni più ricercate on line sono quelle sugli stili di vita, così come che le app più utilizzate sono quelle sul monitoraggio dello stile di vita, mentre i servizi on line più utili sono il ritiro dei documenti clinici (37 per cento) e la prenotazione di visite ed esami (26 per cento). Soltanto l’8 per cento dei pazienti ha utilizzato la televisita con lo specialista ma è interessato a farlo in futuro. «Ci sono insomma tante opportunità con il digitale, in parte colte con l’emergenza, ma serve investire perché questi servizi siano sempre più connessi, in modo che il cittadino abbia una visione completa del suo percorso di cura».

Le perplessità sulle case di comunità

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza pare che ci si concentri più sui luoghi che sull’investimento in capitale umano e reti. «Concentriamoci su competenze, crescita delle singole professionalità, lavoriamo su un potenziale che c’è già», ha sottolineato Anna Lisa Mandorino, segretario generale di Cittadinanzattiva.
Molto critico sull’investimento nei “luoghi” il presidente della Fofi Andrea Mandelli: «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è una grande occasione ma è un debito che andrà restituito e che pagheranno i nostri figli: ci vuole grande responsabilità nelle scelte. Ho molti dubbi che si possano realizzare 2.600 case della salute entro il 2026, ma soprattutto noi farmacisti non pensiamo siano la soluzione, si rischia che i cronici ricevano assistenza in queste strutture non più di due volte all’anno. Non è con le case di comunità che si affronta il futuro della Sanità italiana». Perplesso il presidente Mandelli anche sulla missione 5 del Pnrr: «Bene che si pensi di potenziare la prossimità delle farmacie rurali ma perché non si è potenziata anche quella delle urbane?» Anche il presidente di Federfarma Marco Cossolo ha sottolineato che «il problema delle case di comunità è che vi sono seguiti 50.000 pazienti, e se i cronici sono il 30 per cento parliamo di 15.000 persone. Per visitarli anche solo due volte all’anno significa dover fare 82 visite al giorno, impensabile. Non si prende in carico il paziente cronico nelle case di comunità».
I professionisti della salute dovrebbero collaborare invece di rubarsi i compiti: lo ha detto con chiarezza Domenico Crisarà, vice segretario nazionale della Fimmg: «Ci potrebbero essere punti della medicina generale in cui il farmacista della farmacia distribuisce i farmaci e magari segue l’aderenza alla terapia, ma sarebbe necessaria una convenzione comune: leghiamo i due sistemi e prevediamo una premialità basata sui risultati. Del resto una sutura non può farla chiunque, banalizzare l’atto medico non è la strada giusta. L’integrazione va bene ma nel rispetto dei ruoli di ciascuno».

Un diluvio di banalità

«Stiamo per essere travolti da un diluvio di banalità. Cosa vogliono realmente i cittadini? Noi possiamo adottare soluzioni innovative ma il ritardo con cui il Ssn le adotta è strabiliante», ha detto Claudio Cricelli, presidente della Simg. «Un esempio? Durante la pandemia lo strumento più usato è stato WhatsApp. Abbiamo insegnato a distanza ai pazienti a usare i saturimetri, con WhatsApp facevamo i videoconsulti. La salute, come la fede, si dispensa sul territorio, nelle cappelle, non nelle cattedrali. E intanto sta prendendo piede il modello Amazon: dall’“Io vado” (al mercato, in farmacia, alla casa della salute) al “Sono loro che vengono da me”. I cittadini vogliono un modello sociale di facile e rapida fruizione».
Le politiche di sviluppo sul territorio sono rimaste finora sulla carta, lo ha sottolineato anche Federico Spandonaro, presidente del Crea Sanità. «Ora abbiano risorse vincolate, nuovo debito, tsunami tecnologico, servono investimenti in produttività: quello che oggi facciamo con 10 potremo farlo con 8 e la sanità può contribuire alla crescita economica. Non serve una nuova governance, servono piani di investimento regionali e metriche per valutarli, va ridefinito il rapporto tra ospedale e territorio: non creiamo luoghi ma servizi ai cittadini».
All’insegna del “restiamo umani” l’intervento, in chiusura dell’evento, di Massimo Temporelli, presidente e cofondatore di FabLab: «Ci guideranno empatia, immaginazione, relazioni; alle macchine lasceremo le attività più ripetitive ma il prendersi cura è di nostra competenza». La tecnologia non basta, il digitale neppure: sono fondamentali ma l’investimento principale per la sanità del futuro dovrà essere sulle persone, sui professionisti che ogni giorno rendono concreta la parola “cura”, anche nell’ambito dell’automedicazione.

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